Gli abbracci di Sharon Fridman tra instabilità e libertà
Siamo arrivati al centro del piazzale con la calda luce rossa del tramonto e un vento freddo che ci rinfrescava il viso. Eravamo reduci dallo spettacolo precedente che si svolgeva all’interno di un vecchio parcheggio. Appena seduti per terra osserviamo una figura spuntare fuori dalla siepe, curiosi iniziamo a capire che era la ballerina protagonista dello spettacolo. Inizia a muoversi sul selciato quando inaspettatamente alla mia destra, correndo, ci raggiunge l’altro danzatore. Solo quando il ragazzo le si affianca si scambiano un abbraccio come se fosse un saluto, ma gli sguardi dei due sono tristi, malinconici, a stento si incrociano. Le loro mani cominciano a muoversi sul corpo dell’altro a ritmo della musica, una musica frenetica e ansimante, che aumenta sempre di più, i gesti dei danzatori vanno a tempo e sono sempre più maneschi: schiaffi e spinte sono accompagnati da risate isteriche, sguaiate. Tutto finisce e la musica si calma, il ragazzo toglie la gonna alla danzatrice e mentre lui corre via lei si esibisce in un assolo che ci pare possa evocare la vita della madre del coreografo Sharon Fridman affetta da una malattia mentale: la sua danza è legnosa, i movimenti la fanno sembrare una marionetta. Quando il danzatore ritorna la coreografia muta: i corpi si intrecciano, ogni movimento dipende dalla forza dell’altro, in uno scambio di ruoli che si conclude con una camminata. Ognuno alla fine va per la propria strada con la luce del sole che lentamente scompare dietro la siepe verso la quale sono diretti.
Alice Tovoli (14y)
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