Danza, città e comunità: una sfida che dura 25 anni
Olivia, Alice e Sofia della redazione “adolescenti” sono andate a incontrare e a intervistare Massimo Carosi, Direttore del Festival Danza Urbana. Matteo ha realizzato qualche scatto e Agata ha collaborato alla redazione dell’intervista che state per leggere. Buona lettura!
“Immaginare un modo diverso di abitare la città” così si apre il suo editoriale. Può spiegarci cosa intende? Ogni giorno attraversiamo molti luoghi della città, immersi nelle nostre abitudini e nel tempo perdiamo il contatto con questi spazi. Dimentichiamo la dimensione dello spazio pubblico che è un luogo dove possiamo incontrare e conoscere, ma anche un luogo di libertà. Un diverso modo di abitare e di riappropriarsi dello spazio collettivo, vivendolo nella maniera più libera possibile. Faccio alcuni esempi: qui in centro ci sono diverse piazze che non sono assiduamente frequentate da bambini che giocano o ci svolgono attività libere, perché, soprattutto nelle grandi città, c’è sempre un po’ di paura a vivere lo spazio pubblico. Forse abbiamo disimparato a vivere questi spazi perchè non sappiamo bene come utilizzarli. Allora dei corpi che danzano ci permettono di vedere degli aspetti particolari di quel luogo e di viverlo in maniera diversa, non in modo consuetudinale. Molti fanno la stessa strada e la percepiscono senza stimoli ormai, sono quasi distratti dai loro stessi pensieri perché quel luogo non li attira più. Invece quando accade qualcosa, quel qualcosa attiva un’attenzione che ci fa percepire quel luogo in modo diverso. Il nostro tentativo è di spostare l’attenzione sui luoghi che viviamo e per fare questo dobbiamo sentirli familiari. I luoghi familiari sono quelli che non solo percorriamo tutti i giorni ma anche che fruiamo e condividiamo con altri, sono quei contesti dove nascono le nostre amicizie. Così ci riappropriamo degli spazi. Questa è la nostra filosofia: lavorare nella dimensione collettiva degli spazi della città. Allora noi tendiamo spesso a immaginare Piazza Maggiore come luogo storico artistico e cuore della città dove è facile che i flussi dei cittadini convergano. Ci sono però tanti altri luoghi più marginali ma questo non vuol dire che non possiamo imparare a viverli, a fruirne e a ridargli una nuova funzione.
Prima ha citato la pandemia come uno dei possibili timori che si possono avere girando per strada. Secondo lei la quarantena ha influenzato il pubblico nel momento in cui è tornato nei luoghi di spettacolo? La risposta a questa domanda è complessa perché le reazioni sono tante e diverse: chi ha vissuto il momento della quarantena in maniera ansiogena perché privato della possibilità di muoversi, di uscire, di avere una propria autonomia nel potersi spostare, muovere a proprio piacimento, fa più fatica adesso a riemergere da questa dimensione di isolamento. A queste storie si aggiungono quelle di chi ha sofferto perché magari ha avuto un proprio caro che ha avuto problemi con il covid ed è stato molto male o è deceduto. Le storie individuali cambiano molto il modo in cui poi uno affronta il dopo. Credo che tutti abbiamo un grande desiderio di futuro, di libertà e anche di ritrovarsi. Soprattutto nei giovani vedo questo grandissimo desiderio di non avere pensieri e preoccupazioni, uscire e vivere gli spazi, poter tornare a incontrarsi. Chiaramente c’è sempre, in molti, la preoccupazione della pandemia e, comunque, una grande voglia di recuperare una normalità: così molti tornavano a vedere spettacoli. Quest’anno ci siamo ritrovati di nuovo dentro l’emergenza e alcune persone hanno difficoltà all’idea di impegnarsi nell’andare, prenotare uno spettacolo, doversi mettere in fila, frasi controllare la temperatura e mostrare il green-pass. Questo può indurre a dire: “Sai che c’è, forse preferisco fare una passeggiata con gli amici, andarmene magari a trovarli, a bere qualcosa insieme, piuttosto che mettermi in fila, e magari dover fare il tampone oppure no…” Insomma, ci sono delle questioni che quest’anno portano al desiderio di semplificare, di essere meno irregimentati ma comunque di trovare soluzioni più semplici nelle scelte del proprio tempo libero. Il tempo libero è diventato un qualcosa di molto prezioso come la possibilità di andare a fare qualcosa per il piacere di stare fuori e di incontrare altri. Però il teatro, con le restrizioni, ci ricorda che siamo ancora in pandemia e che ci sono ancora delle regole da rispettare, questo un po’ disincentiva chi non è fortemente motivato.
Qual è il significato dei luoghi che ha scelto in relazione alla pandemia, ma anche a un diverso modo di immaginare la città, di abitarla? Quest’anno, dicevo in conferenza stampa, è un’altra edizione anomala del festival Danza Urbana, dopo quella dell’anno scorso in cui abbiamo deciso di concentrare tutta l’attività del festival in un unico luogo, il DUMBO, pur essendo un luogo molto vasto, che comprende tanti contesti diversi, perché era un luogo di rigenerazione urbana e quindi ci sembrava da un lato assolutamente simbolico. Il desiderio è stato di rigenerazione, di prendere una a nuova via perché con la pandemia sono emerse tante questioni sulla nostra condizione di cittadini, di vivere nelle città. Le case troppo piccole, la distanza da luoghi verdi e tante altre condizioni. Ci sembrava emersa una coscienza e una consapevolezza più profonda riguardo le questioni ambientali e il legame tra qualità della vita nelle città e il reinventare la città più eco sostenibile e vivibile. Così abbiamo scelto quell’area, che era ed è un’area dismessa, era un ex scalo ferroviario merci, adesso dovrà trovare una nuova vita, una nuova funzione, legata ad attività culturali, artistiche e sociali. Quindi ci sembra un bel progetto, una bella iniziativa però siamo stati costretti l’anno scorso a fare spettacoli a pagamento, anche se con prezzi assolutamente popolari. L’idea era che ognuno contribuisse a rendere un po’ più vivibile la città. Tutti gli incassi furono destinati alla riforestazione urbana, quindi a un progetto per piantare nuovi alberi in città. Vennero piantati cinque alberi al giardino della Dozza in zona Stalingrado, non tantissimi, però il costo della piantumazione era abbastanza alto. Ci siamo dovuti adattare a tutta una serie di norme che ci vengono imposte, quindi non possiamo occupare una piazza e dire: “Facciamo uno spettacolo in piazza Santo Stefano”. La scelta è caduta su cortili, chiostri, palazzi del centro storico oppure su alcuni luoghi particolari. Nelle giornate del tre siamo nel cuore della città in Palazzo Re Enzo e per noi questo un po’ simboleggia anche questa dinamica dalla prima periferia al centro, dal centro a decentrarci, attraversare la città senza avere gerarchia. Il quattro, invece, saremo in due luoghi diversi:al Chiostro di San Martino e all’ex Chiesa di San Mattia. La giornata del cinque è invece un’apertura, come una proiezione verso il futuro, quindi dal luogo dell’anno passato, il DUMBO, ad una dimensione di approccio ai luoghi pubblici, altrimenti proibito. Utilizzeremo il Giardino Parker Lennon e due parcheggi pubblici, uno dei quali di fronte alla Cineteca. Questi sono dei luoghi che rispondono alle norme che ci vengono date, ma con una piccola forzatura ci permettono in qualche modo di riaprire un canale di dislocazione nella città, di apertura, di diffusione nel territorio.
Sappiamo che ci sono state 25 edizioni di questo festival. Cos’è cambiato dal primo festival a quello di quest’anno? Il festival è cambiato molto: sono diverse sia le generazioni di artisti così come il tessuto della città di Bologna. Venticinque anni fa la città era un diversa da quella di oggi: oggi è più turistica, mentre venticinque anni fa non lo era affatto, o meglio, c’era un turismo di tipo fieristico. Aveva ancora le ferite di storie passate, come la strage di Bologna del 2 agosto 1980, quella di Ustica, i movimenti giovanili, le lotte degli anni Settanta, la Uno Bianca negli anni Novanta. Insomma era un luogo molto diverso da quello di oggi, così come il concetto di danza: un cittadino, interrogato sulla parola danza avrebbe pensato ai Momix oppure a Carla Fracci, che era il simbolo del balletto e della danza in generale. I cittadini non conoscevano le esperienze artistiche della danza contemporanea che invece rappresentano un elemento di vicinanza ai linguaggi dell’oggi. Quindi per noi era importante riuscire a creare un incontro tra due mondi diversi: quello degli artisti contemporanei e quello dei cittadini. Siamo stati il primo festival specificamente dedicato alla danza in spazi non teatrali, dislocati nella città, siamo stati i primi in Italia a lavorare pionieristicamente per creare questo ambito di ricerca e sperimentazione. Oggi è molto comune vedere spettacoli in spazi all’aperto, anni fa non era così: i luoghi deputati erano il teatro, i musei o le gallerie d’arte. Oggi si parla molto di street art, di arte pubblica ed è normale vedere installazioni artistiche in luoghi particolari della città. E’ cambiata molto anche la nostra coscienza rispetto ai luoghi dove abitiamo: molte persone si sono spostate fuori dal centro, che è diventato un luogo abitato da anziani e studenti. Il centro si svuotato e trasformato ulteriormente con l’esplosione dei b&b, che hanno spesso costretto gli studenti a uscire dal centro. In questo consiste la cosiddetta gentrificazione: ossia quando il centro della città diventa un elemento di richiamo di turisti ed è una sorta di grande parco di divertimenti abitato solo da negozi appartenenti alle grandi catene internazionali che vanno a sostituire quelli a gestione familiare. Ciò significa che i centri tendono ad omologarsi per rispondere alle esigenze di un flusso turistico internazionale perdendo in parte la propria identità. Un tempo non era così: ad esempio il sagrato della Basilica di San Petronio, ora quasi inaccessibile, era un tempo il luogo di ritrovo di molti giovani che si sedevano sui gradini della chiesa per suonare e cantare o chiacchierare e bere una birra sotto la facciata della Basilica. Oggi è al contrario un luogo inaccessibile che, transennato e sorvegliato dalle forze dell’ordine, non può essere fruito. Questa è una dimostrazione di un cambiamento, della militarizzazione degli spazi legata a una questione di sicurezza, alla percezione dell’insicurezza; si ha infatti paura di alcune zone della città. Tutti questi elementi hanno cambiato il nostro modo di vivere nella città. Dobbiamo considerare però anche gli aspetti positivi di questa trasformazione, come la maggiore illuminazione specialmente di notte, la possibilità di avere a disposizione diversi tipi di locali e ristoranti, la maggiore connessione con gli altri paesi che rende anche la città più attraversata da persone che vengono da tutte le parti del mondo. In questo contesto anche la nostra consapevolezza del Festival è cambiata molto: all’inizio il nostro desiderio era quello di abitare i luoghi della città con le creazioni degli artisti e far incontrare il pubblico alle performance di danza. Poi è nata un’esigenza diversa: quella di incidere maggiormente sulla dimensione e sulla vita della città assistendo a uno spettacolo non più solo per intrattenimento, ma per vivere un’esperienza. Quindi abbiamo proposto delle performance un po’ particolari: ad esempio nel 2015 il pubblico partecipava ad un campo esperienziale di 4 giorni in cui camminava attorno alla città di Bologna per esplorarla e conoscerla, e si accampava in 4 punti diversi della città: il primo giorno al Pilastro, il secondo all’Arcoveggio, il terzo al quartiere Barca e il quarto su l’Eremo di Ronzano. Questa performance si chiamava “Moto celeste”, ed è stata un’esperienza straordinaria per conoscere più da vicino e nel profondo la città, camminando. Non era quindi uno spettacolo, ma un’esperienza che ha permesso di entrare in sintonia con l’artista, con gli altri partecipanti e con il luogo che si attraversava.
Com’è cambiato il suo modo di scegliere gli spettacoli a fronte, forse, anche di una mutazione delle aspettative del pubblico? Le scelte che opero non sono mai necessariamente legate al gusto del pubblico, anche perché non sarebbe possibile accontentarli tutti. Perciò non mi focalizzo mai sul problema del gusto dello spettatore, ma su come creare un incontro tra urgenze artistiche e cittadini. Quando scelgo delle opere mi chiedo sempre cosa può fare la danza per portarci a riflettere, vivere esperienze ed emozioni che ci permettano di arricchirci e come le creazioni possono lasciare un segno più profondo. Le scelte sono anche volte a far crescere giovani talenti; le creazioni di giovani artisti si trovano ancora in una fase di esplorazione magari molto fresche ma non del tutto mature. Ma è importante dare spazio anche a queste proposte, il pubblico è capace di percepire le necessità artistiche di comunicazione al di là del possibile “errore”. Per noi è importante creare un equilibrio tra l’esigenza della comunità, – vivere delle esperienze attraverso la danza che ci permettono di vivere la città in maniera diversa, di incontrarci e fare esperienze che ci arricchiscono -, e offrire la visibilità a degli artisti cercando di accogliere anche proposte più fragili ma con un valore importante.
Secondo lei si è trasformato l’interesse del pubblico dalla prima alla venticinquesima edizione? Credo che oggi l’interesse per la danza sia cambiato e che ci sia una maggiore consapevolezza da parte di chi guarda. Quando abbiamo iniziato a immaginare il festival la danza era considerata un’arte di nicchia per un gruppo ristretto di persone Si riteneva che fosse un’arte “elitaria”, noi ci siamo opposti a questa idea convinti che i linguaggi della danza potessero parlare a una platea molto più ampia. Bisognava dunque creare l’incontro, l’occasione affinchè la gente conoscesse ed entrasse in contatto con le opere contemporanee di danza. All’inizio la gente veniva da me e diceva “mi è piaciuto ma non ho capito” perchè faceva fatica a distinguere il proprio modo di vedere la danza dal significato più profondo che gli artisti volevano esprimere attraverso il corpo e i movimenti. L’arte contemporanea ha conosciuto un’ampia diffusione all’inizio del millennio da un lato perchè è uscita dai luoghi deputati e ha invaso i luoghi pubblici dall’altro è stata amplificata dall’avvento dei social media. Grazie a questi due elementi, anche il Festival ha riscontrato una maggiore vicinanza del pubblico alla danza.
Lo spazio è protagonista dello spettacolo? Condiziona la scelta di quest’ultimo? Gli spazi sono importanti perché ogni luogo ha una sua natura, incidendo molto sulla composizione e la relazione che si crea con l’opera, però non sempre è in sintonia con l’ambiente. Quando scegliamo un determinato luogo, chiediamo all’artista di lavorarci sopra e di creare un’atmosfera creata ad hoc per quel luogo.
Sofia Castaldi, Agata Cogni, Olivia Costa, Alice Tovoli (14y e 18y)
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